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Oleg e Giovanni: due storie su cui meditare.

Oleg Mandic e Giovanni (Ivo) Pamich, negli anni quaranta del secolo scorso, erano due bambini. Vivevano a Fiume, città bellissima con una storia interamente proiettata nella Mitteleuropa. Giocavano sulle stesse Piazze, si sbucciavano le ginocchia sulla stessa ghiaia. La crudeltà dei nazionalismi e totalitarismi, su fronti contrapposti, gli rubarono la loro infanzia e gran parte della vita, dividendoli per quasi settanta anni. Oggi, dopo essersi riabbracciati, ci raccontano la loro storia. Storia di dolore, di crudeltà ma anche di speranza. La loro dignità, il loro non arrendersi davanti alle avversità della vita, la loro forza nel reagire fino a costruirsi un percorso professionale di grande prestigio partendo dal nulla, siano per tutti noi motivo di grande riflessione e consapevolezza.
Sono stati due soci onorari. Sia per tutti noi un onore averli accanto.

Bruno Augusto Pinat - Past President Rotary eclub 2060

 
SONO L´ULTIMO  DETENUTO USCITO VIVO DA AUSCHWITZ
Il racconto di Oleg Mandić, Opatijia/Abbazia (Croazia)

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Oggi compio ottantuno anni. All´epoca ne avevo appena undici. La primavera di quel lontano 1944 era appena sbocciata e con lei i profumatissimi fior di maggio del nostro giardino di Abbazia. Vennero in sei con quei appariscenti collari sui quali la scritta a caratteri gotici: Feldgendarmerie. Ci portarono a "Via Roma", al sinistro carcere di Fiume. Per la nonna, la mamma e me fu solo un pernottamento, perché giá il giorno seguente a buonora ci infilarono, sotto scorta, in un treno passeggeri. Destinazione - Trieste "Coroneo". Il noto carcere triestino, dopo i fatti del settembre precedente, passó in mano tedesca e fu un punto di raccolta per partigiani, antifascisti, disertori e tutti quelli che l´invasore avrebbe qualificato come nemici del Terzo Reich.

Fra questi anche Ines, una spensierata "falena" che esercitando il suo mestiere aveva trasgredito il coprifuoco ed era finita nella cella accanto alla mia. In una  repressione di ostaggi Ines ci lasció la vita, quale crudele esempio di quanto sia  pericoloso trovarsi nel momento sbagliato al posto sbagliato.

Una notte di due mesi dopo ci misero di nuovo su un treno. Ma stavolta le carrozze erano carri bestiame. E noi settanta e piú stipati in ogni vagone. Mancava l´aria e anche lo spazio per sedersi. I bisogni si facevano in coro pubblico! In tre giorni di viaggio ci aprirono solo due volte per abevverarci e per svuotare i fusti con le feci. Sulle fiancate del convoglio che si era nel frattempo notevolmente ingrandito apparvero scritte a mano: Auschwitz.   Destinazione?

A noi ció non diceva niente.

Arrivati allo scalo di Birkenau e passata la selezione  uomini/donne sulla gradinata d´arrivo, finimmo in un ampio stabile dove ci misero a nudo prendendoci tutto. Nell´occasione la mamma protestó ed un inserviente addobbato a righe, recluso anche lui, le disse: ma tu lo sai dove ti trovi? Sei ad Auschwitz  nel vernichtungslager (campo di sterminio). Fu solo allora che ci rendemmo conto in che situazione ci trovavamo.

Ci catalogarono. Ricevetti il numero 189488 che mi fu contemporaneamente tatuato sull´avambraccio sinistro. Inoltre il triangolino rosso quale prigioniero politico (a 11 anni!) su cui villeggiavano due lettere "It" - per Italia. Infatti, noi allora eravamo cittadini italiani.

Mi trattenni per due mesi con la mamma e la nonna nel Blok (dormitoio di mattoni per 700 reclusi) numero 8 del reparto femminile della sezione Birkenau del campo. Solo allora qualcuno   si accorse che io, pur avendo superato l´etá di dieci anni, alla quale sarei dovuto essere inviato nel reparto maschile, mi trovavo nel reparto femminile. Orribile mancanza!

Furono subito avviate le pratiche per il mio spostamento. Fra l´altro la visita medica. Fortunatamente e fortunosamente nell´occasione ebbi un notevole rialzo di febbre, percui - non idoneo al trasferimento.

Figuriamoci! In quel posto dove giornalmente venivano sistematicamente uccise migliaia di persone, l´aumento di febbre di un ragazzino destava problemi logistici di notevole entitá! Il quesito del momento fu: dove sistemare il  ragazzino? Lager femminile dov´era finora - no, perché maschio superiore a 10 anni. Lager maschile - no perché febbriciante. Reparto ospedaliero femminile - no per le ragioni giá espresse. Reparto ospedaliero maschile, pure.

La soluzione fu trovata, siccome trattavasi di caso di breve durata, nel reparto speciale del dottor Mengele. Reparto dove stavano sistemati gemelli fino all´etá di 18 anni, maschi e femmine. Su di loro Mengele svolgeva i suoi famigerati esperimenti.                          

Fui sistemato da Mengele. Non tardai a capire che lí stavo benissimo e in parte simulando malori e in parte  avendo riscosso diverse malattie, riuscii a rimanerci per quattro mesi. I gemelli andavano e raramente tornavano, mentre io continuavo a starmene lá. Il dottor Mengele veniva ogni giorno, ogni tanto mi rivolgeva la parola, ma sembrava, anche se gentile, non troppo interessato a me.

Ebbi due settimane di intervallo per malattia infettiva - venni esiliato nel reparto infettivo, ma poi per fortuna "restituito" a Mengele.

Eravamo giá in dicembre. Mia mamma era riuscita a farsi assumere come infermiera di notte nel reparto "donne alienate"! Infatti esisteva anche questo ad Auschwitz!  Col nuovo incarico poteva circolare noncurante del coprifuoco il che le  consentiva poi, ogni tanto, di venirmi a trovare.  Andava a trovare anche la  nonna che nel frattempo é stata pure lei sistemata nel reparto ospedaliero donne.

Per Natale mamma mi regaló un intero bulbo di aglio: otto spicchi! Mi sentivo un nababbo! (L´aglio, sulla piazza dei baratti nel campo, figurava in cima alla lista dei valori.)

Avevano fatto giá saltare in aria i due principali crematori. Si sentiva l´avvicinarsi delle artiglierie russe. Con l´aria non piú intrisa dal dolciastro sapore, piú che odore, di carne bruciata si percepiva un alito di speranza. Speranza di vita e libertá?

No. Non era possibile... Non ancora.

In gennaio la neve non si lasció aspettare. Ed in Slesia quando dici neve é neve vera, folta e smisurata. Ci raggrupparono sulla lagerstrasse (strada principale del campo). In ottantamila e piú.  Ebbe cosí l´inizio della famigerata "marcia della morte" di Auschwitz.

Con l´occasione mamma, nonna ed io riuscimmo a riunirci. Stabilimmo pure di evitare il plotone che stava formandosi per la marcia: nonna ed io non eravamo in grado di camminare piú di tanto. Evitando i punti di controllo ormai esigui, siamo riusciti a immetterci nel gruppo destinato a rimanere. Eravamo in cinquemila. Tutti scarni, sciatti e sciancati. Fortunatamente i tedeschi avevano fretta di andarsene e ci lasciarono al nostro destino senza intervenire.

Una settimana dopo il lager fu liberato dall´Armata rossa. Siamo stati in appena tremila e passa ad accoglierli.

Era il 27 gennaio del 1945. Storica giornata che molti anni dopo fu proclamata Giornata internazionale dell´Olocausto.

Febbraio passava nell´evacuazione dei sopravissuti e nella sepoltura degli ultimi che non ce la fecero. Mamma, nonna ed io, invece, aspettavamo l´occasione per congiungerci al nonno e papá che militavano nei ranghi alti di Tito in Jugoslavia. I russi avrebbero dovuto portarci a Mosca, ma con l´inverno che imperversava e col fronte appena passato i tempi si prolungarono. Evacuati tutti i rimanenti, il comandante russo, al quale con ció era terminato l`incarico, ci mise in automobile e ci portó a Cracovia al comando russo di quella sezione del fronte. Alle mie spalle chiuse il cancello di Auschwitz e abbassó la sbarra con la storica frase che identificava Auschwitz: Arbeit macht frei (il lavoro libera).

Con ció diventai l´ultimo detenuto uscito vivo da Auschwitz!!!

La triste esperienza determinó la mia vita futura.

Ebbi una vita molto felice. E tutto grazie ad Auschwitz! Avevo 13-14 anni quando capii che tutto il brutto che mi doveva capitare nella vita mi era giá capitato. Percui niente piú mi poteva affliggere. Le beghe, le grane e i grattacapi   accadutimi dopo, sono state bazzeccole in confronto con quell´anno di esperienze particolari...

E quando mi assillava qualche problema serio tornavo ad Auschwitz. Per vedere giacigli frugali  nei resti di baracche di legno, e sguardi disperati che sembravano provenire dalle sinistre macerie dei crematori distrutti. Lí a Birkenau, ritrovando vedute giá viste e vita giá vissuta, mi riempivo di energia e ottimismo  e tornavo a casa respirando a pieni polmoni.

E cosí per sei volte negli ultimi 70 anni "

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Fuga verso la libertà
Il racconto di
Giovanni Pamich - Gorizia

                                                                      pamich

Sentito il racconto dell'esperienza di Oleg, negli anni della seconda infanzia, mi sento imbarazzato a farvi il mio perchè ritengo che nulla al mondo sia paragonabile al percorso terribile che  conduceva alla fabbrica del Male Assoluto. Il mio, al confronto, sembrerà la banale descrizione della fuga da casa di due ragazzi nella prima adolescenza, sebbene anche per noi non è stato un momento facile.

Ed ora cercherò di aprire la mente ai ricordi di quel periodo.

Settembre 1947, l'estate sembra non finire mai. Le  lezioni sono riprese all'inizi del mese. Banchi vuoti. Alla fine dell'anno scolastico precedente alcuni amici se ne sono andati dalla città dove erano ritornati dopo aver cercato rifugio altrove per salvarsi dalle persecuzioni naziste del'43- '44;mi avevano detto che sarebbero andati chi a Praga chi in Ungheria, nelle terre d'origine dei loro bisnonni, ma la loro corrispondenza arriva da città italiane. Rimuovo altre considerazioni e il pensiero corre verspo la Costa assolata , ed il mare limpido ed azzurro che mi aspetta alla fine delle lezioni.

Dopo  gli anni crudeli della guerra la vita, in apparenza, sembra tornare lentamente alla normalità anche se ipostumi sono ancora evidenti : il porto,già secondo porto dell'Impero Asburgico e nel top ten dei porti europei fino ai primi anni del 900 , porta ancora i segni delle distruzioni provocate dai nazisti in ritirata ; per strada si vedono ancora passare prigionieri di guerra che vanno e vengono dal lavoro cantando : non più il Horst-Wessel-Lied ma l'Internazionale ; nel piazzale della stazione non c'è più l'andirivieni di jeep e di berline della Commissione Interalleata.Tira un'aria strana: la libertà e la pace tanto attese rivelano aspetti ogni giorno più inquietanti e dejàvu. Bisogna tenere a freno il proprio pensiero e le proprie opinioni; anzi è meglio non averne e sopratutto non esprimerle.

Sicchè un giorno mio padre, da tempo cupo e silenzioso, ci annuncia di dover recarsi a Trieste per lavoro. A noi ragazzi la cosa pare abbastanza normale. Non però due giorni dopo, quando non lo vediamo ritornare. Tutto ci diventa chiaro quando la mamma in un sussurro dice a me ed a mio fratello secondogenito che tra qualche settimana dovremo raggiungerlo a Milano.

Così accade che il 23 settembre ore 2 del mattino due ragazzotti in calzoncini corti uno di 15 e l'altro di 14 anni schizzano fuori dal portone dello stabile contrassegnato con il n.32 del viale che attraversa la città da oriente ad occidente e che dal  1918 al 1947 ha cambiato nome 5 o 6 volte;  entrano nell'atrio della stazione ferroviaria posta di fronte ; acquistano due biglietti per Trieste ignorando che quel treno, una volta diretto a Trieste , ora va a Lubiana. I due ragazzotti sono io e mio fratello Abdon. Durante il tragitto il controllore ci avvisa che per andare a Trieste dobbiamo cambiare treno a S.Pietro del Carso ovvero Pivka e prenderne uno proveniente da Lubiana. Arriviamo a S. Pietro-Pivka prima dell'alba. Infreddoliti per lo sbalzo termico cui siamo impreparati (15 gradi di differenza rispetto alla temperatura estiva del litorale), ci rintaniamo nella sala d'attesa della stazione. Dopo diverse ore, a sole già alto, viene annunciato l'arrivo del treno da Lubiana.

Sonnolenza ed ansia non ci fanno recepire l'annuncio che il treno viene diviso in due sezioni, una diretta a Trieste e l'altra diretta a Fiume, ed erroneemente saliamo su una delle vetture dirette a Fiume. Ce ne rendiamo conto dopo una decina di minuti e dopo aver percorso diversi Km. Attimi di panico e di sconcerto! Scioccamente ci mettiamo a correre verso la parte opposta alla direzione presa dal treno in una patetica ed inutile fuga durante la quale ci scontriamo con un miliziano di Fiume, il quale, probabilmente ci  aveva notato alla partenza , ci chiede dove stiamo correndo  e dove abbiamo intenzione di andare; intimoriti ,  farfugliamo una vaga risposta e lo superiamo correndo. Con nostro grande sollievo non fa l'atto di seguirci!

Arrivati in coda al treno,ci guardiamo perplessi ed incerti sul da farsi.Ma ecco il colpo di fortuna ! Inaspettatamente il treno siferma in una zona deserta dell'altipiano; approfittiamo per scendere e ci incamminiamo lungo la massicciata della ferrovia verso S.Pietro dove arriviamo dopo mezzo-giorno. Ci informano che il prossimo treno per Trieste passa nel tardo pomeriggio. Nell'attesa giriamo per il paese che sembra disabitato; calmiamo i morsi della fame mangiando delle mele cadute dagli alberi lungo la strada. Finalmente arriva il treno , stiamo attenti a non sbagliare vettura e si parte. Un altro intoppo ci attende alla stazione di Divaccia! Salgono guardie confinarie jugoslave che impongono a tutti i passeggeri di scendere per il controllo dei documenti. Mentre attendiamo in coda il nostro turno, scopriamo che il documento in nostro possesso non è più valido per oltrepassare  la nuova linea di demarcazione. Lo capiamo assistendo ad un concitato dialogo tra una guardia confinaria ed uno studente sloveno della Venezia Giulia, il quale, con lo stesso documento in mano, implora di passare perchè deve sostenere degli esami presso l'Università di Trieste.Gli viene rudemente risposto di tornarsene a casa e di rivolgersi all'Università di Lubiana. Afferrata  la   situazione e  intuendo  che non avremmo avuto  migliore fortuna cerchiamo di ritardare il controllo arretrando lentamente , pensando a come uscirne. Con questa tattica ci facciamo superare da alcune donne triestine al ritorno da una visita a famigliari internati in Jugoslavia. Alcune di queste informatesi da dove veniamo e quali siano le nostre intenzioni ci suggeriscono di "farci piccoli" e di "mescolarsi" nel loro gruppo come se ne facessimo parte. Nella   confusione del momento la guardia non ci presta attenzione o non gliene importa di noi,forse ritenendoci figli di una delle donne. Aggregati al gruppo delle donne vocianti, che ci  impongono di tacere, risaliamo sul treno trattenendo il respiro sino al check-point anglo-americano. Alle  10 di sera arriviamo a    Trieste dopo aver percorso  i  70 km che ci separavano da essa in "sole" 19 ore! 

Veniamo indirizzati all'ancora anonimo Silos. Siamo gli  unici arrivati nella notte; ci fanno spogliare, sottoporre a visita  medica e cospargere di DDT (anche se privi di pidocchi e zecche).Dopo il trattamento  sanitario ci danno una bella pagnotta con la mortadella che divoriamo in un batter d'occhio.Infine per dormire ci  vengono indicate delle brande,residuato dell'Esercito,in un vasto magazzino granario semivuoto. Al risveglio pioggia battente! Dopo una frugale prima colazione diciamo di voler proseguire per Milano per raggiungere nostro padre.Veniamo invitati a rivolgerci ad unu fficio del GMA, dove ci rechiamo dopo aver telegrafato alla mamma del nostro  arrivo a Trieste. Ci  forniscono un lasciapassare ed il biglietto ferroviario per Milano. Si parte a tarda sera con un treno affollatissimo,costretti a viaggiare in piedi. Al mattino si arriva a Milano; dove, dopo ore di ricerche ,incontriamo papà, il  quale,nella Milano devastata dalla guerra, non aveva trovato il punto di riferimento ottimisticamente   previsto : la succursale dell'azienda di  cui era dirigente a Fiume.

Perciò ha inizio un periodo di grosse difficoltà che ,dopo un mese circa , ci inducono a  rivolgerci alla "Postbellica", da dove veniamo inviati al Centro Smistamento Displaced Persons di Udine. Segue altra peripezia ferroviaria su un treno affollatissimo da Milano a Venezia e poi carro bestiame da Venezia ad Udine, fortunatamente non affollato né sigillato, come quello di Oleg,ma ventilato da battere i denti (le linee secondarie ed i treni a  non lunga percorrenza avevano quella composizione perchè il  materiale rotabile era ancora scarso). Ad Udine il Centro Smistamento si trova nella scuola di via Gorizia; una delle aule adibite a dormitorio con brande militari diventa il nostro alloggio.

Dopo un mese: destinazione Novara. Veniamo sistemati  nell'ottocentesca Caserma Perrone,in parte sventrata da qualche bomba,con finestre prive di vetri,sostituiti da cartoni o  cellophane nelle camerate ma non nei servizi "igienici" (si fa per dire)  dove  d'inverno  bisogna  staccare  stalattiti  di  ghiaccio dai rubinetti. Il letto è un sacco di juta riempito con foglie di  pannocchie di granturco sistemato su tavolacci sostenuti da due cavalletti, più due coperte (peccato che durante l'estate  questo comodo giaciglio si    riempisse di cimici!). Al magazzino vestiario (finalmente possiamo vestirci in maniera adatta ad affrontare le temperature già piuttosto rigide della stagione!) ci danno un paio di pantaloni dell'Esercito di Sua Maestà britannica,un paio di scarpe da marine USA (numero  abbondante!) ,un giubbotto di lana  ed infine una gavetta per i tre pasti quotidiani che poi ci verranno distribuiti da enormi ed affumicatissime marmitte.

Dopo alcuni giorni, con oltre un mese di ritardo, riprendiamo gli studi interrotti e ultimiamo regolarmente l'anno scolastico.

Ad autunno inoltrato ,passato circa un anno, da Novara andammo a Genova dove papà si era sistemato. Da Genova, trascorsi alcuni mesi, andai a Udine incontro alla mamma ed agli altri due fratelli piccoli, che non vedevo da oltre un anno.

Così nel novembre 1948 la famiglia finalmente si riunì.

La vita continuò con altre difficoltà, come per tante famiglie, per anni ancora... ma potevamo pensare, avere opinioni personali ed esprimerle liberamente. Ed è stato il dono più grande che noi figli abbiamo avuto da nostro Padre.

Questo è stato un periodo della mia vita che mai avrei pensato di esporre in pubblico; mi sono sentito di farlo durante un evento così significativo come questo service portato a termine in nome di una umanità che non conosce confini.

Permettetemi di concludere testimoniando la mia  fraterna amicizia ad Oleg, nata poco più di un anno fa, a 68 anni dagli avvenimenti narrati, e la mia ammirazione per la sua forza d'animo nell'affrontare il  doloroso ricordo di tanti orrori visti  con il  nobile scopo di lasciare un messaggio alle giovani generazioni affinchè simili fatti non accadano mai più.

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